ChatGPT is not my friend
Il 31 ottobre 2023 si è tenuto il secondo appuntamento del programma Giovani & Industria 2023. L’assemblea pubblica 2023 del Club_Digitale ha voluto fare il punto sul ruolo che la creatività personale può avere per l’impresa, in un contesto caratterizzato da digitalizzazione, automazione e robotica, per costruire valore, differenziarsi e competere.
Intervistato dalla bravissima Federica Galli, subito dopo due interventi giganteschi di Vincos e Marina Geymonat, ho provato a dire la mia.
Di seguito la trascrizione quasi fedele del mio contributo alla discussione che ho realizzato, ebbene sì, grazie alla lettura fonetica di un’intelligenza artificiale che ha riportato quasi fedelmente il contenuto del mio intervento. Le uniche allucinazioni presenti di seguito sono da attribuire solo e soltanto al sottoscritto.
Buona lettura.
Secondo me la difficoltà che abbiamo in questo momento è linguistica.
Nel senso che all’interno del momento in cui siamo, noi descriviamo quello che sta succedendo con parole che non abbiamo. Marina e Vincenzo hanno usato per tutto il tempo del loro intervento la parola creatività. Quindi, probabilmente, siamo di fronte a un equivoco cognitivo che nasce dentro le nostre imprese, cioè quando abbiamo deciso che nelle agenzie di comunicazione il mio lavoro fosse un lavoro creativo. E io ho sempre pensato che in realtà noi eravamo dei mestieranti della pubblicità — mi definisco scrittore pubblicitario — per convenzione sono un direttore creativo perché dirigo team che nelle agenzie di comunicazione, convenzionalmente, vengono chiamate risorse creative.
Ma la creatività, quella di cui parlava Marina, quella che arriva dalla sensibilità dell’umano, quello che fa decidere a Pollock di far cadere del colore su una tela usando la forza di gravità per esprimere il suo stare nel mondo. Quella roba lì non ha niente a che fare con quello che noi ogni giorno facciamo dentro le nostre agenzie e dentro i centri media.
Quando Vincos ci fa vedere i piani editoriali social generati da ChatGPT è anche questo frutto di un equivoco: l’equivoco di chi ha svenduto dentro le nostre agenzie i piani editoriali alle aziende, facendoli pagare poche decine di euro a post e quindi sì, conviene farlo fare da ChatGPT.
Ma questo equivoco è stato costruito dentro le nostre agenzie. Io ogni anno faccio un esercizio linguistico: scelgo la parola dell’anno e con la parola dell’anno faccio realizzare una maglietta che è diventata un feticcio nel piccolo mondo dei miei clienti e delle mie amicizie.
Nel 2020 la t-shirt era dedicata al lockdown: era l’anno in cui si accendevano milioni di teleconferenze e ci dimenticavamo del fatto che dall’altra parte c’era qualcuno che voleva sentire quello che avevamo da dire. Il 2021 l’ho dedicato ai vaccini, per dire al mondo che c’era qualcuno che aveva reso possibile combattere una pandemia così importante grazie al lavoro della ricerca. L’anno scorso era l’anno delle grandi dimissioni, il fenomeno del quit quitting e della great resegnation, Out of Office mi è sembrato il modo migliore per salutare l’anno che stava per finire.
Vi faccio vedere la t-shirt di quest’anno, così inquadriamo subito l’oggetto del contendere.
Mi occupo di scrittura pubblicitaria da troppi anni per accettare che ChatGPT si occupi di copywriting. A meno che non si tratti di scrittura compilativa, perché il copywriting è un’altra cosa.
Volete dare in pasto a a ChatGPT, SEO, SEM, descrizioni dei prodotti? Fate pure, ma non parlatemi di copywriting. E quindi secondo me davvero in questo momento abbiamo un problema tassonomico, abbiamo un problema linguistico: stiamo definendo con parole antiche qualcosa che sta rivoluzionando il mondo della comunicazione, del fare impresa, dell’industria.
Per quanto riguarda la mia posizione, in questo momento mi interessa molto alzare l’asticella.
Lo faccio perché ho molto spesso contatto con i ragazzi e le ragazze che vogliono fare questo mestiere. E sarà perché nasco nella scrittura digitale, sarà perché ho frequentato a lungo la Scuola Holden, sarà perché sono cresciuto creativamente nell’humus di un’agenzia straordinaria come Ogilvy, che era un’agenzia che aveva un certo tipo di cultura, di sensibilità nei confronti delle interlocuzioni. David Ogilvy diceva “il consumatore non è uno stupido il consumatore è tua moglie”. Negli anni sessanta, in pieno sboom economico quando in Italia si creava a tavolino la casalinga di Voghera, una povera signora pochissimo scolarizzata, rimbecillita di televisione dalla mattina alla sera. Dico questo per far capire quanto sia diverso il mio atteggiamento nei confronti di questo mestiere.
Io provo a scrivere ogni giorno una pubblicità che nessuna intelligenza artificiale potrà replicare.
Quale prompt usi per far dire a un’istituzione come Triennale Milano la posizione che vogliono prendere nel mondo?. Per fare in modo che la cultura torni ad essere anticorpo civile, per riappropriarsi di una funzione, direi politica, della cultura.
Ecco quello che dobbiamo trasmettere ai nostri ragazzi e alle nostre ragazze che si avvicinano a questo mestiere. Mi piaceva molto il tema che entrambi, sia Marina che Vincenzo, hanno toccato: interrogarci su queste tematiche nella misura in cui offrono la possibilità di alzare l’asticella e di portarla dove non siamo ancora arrivati. Come? Come atteggiamento di pensiero, come atteggiamento di studio, come sensibilità… ma ho una grande paura, ed è questo il mio timore più forte.
Io non ho paura che l’intelligenza generativa mi costringa a fare un lavoro diverso tra qualche anno e credo che la maggior parte dei ragazzi e delle ragazze che studiano con me, o che lavorano con me, non sentano minimamente questa preoccupazione.
La paura vera che ho, e ve lo dico sinceramente, è che un certo tipo di intelligenza artificiale ci tolga lo sguardo dal mondo, ci sottragga cioè la possibilità di leggere la meraviglia del reale.
Ci tolga la possibilità di ammirare davvero per strada una ragazza coi capelli rossi, gli occhi azzurri e le lentiggini. Perché tanto me la posso ricostruire a casa, sul monitor.
Vi è chiaro cosa sto dicendo? C’è bellezza, meraviglia, incanto là fuori, che è quello che permette a chi fa arte di usare a pieno titolo la parola creatività. E la vera tensione, la vera paura che ho, non è quella professionale. E quella che le generazioni più giovani perdano questa opportunità che noi abbiamo avuto e che loro potrebbero non avere più, perché non vengono più addestrati a guardare il mondo. Cioè, stiamo addestrando l’intelligenza artificiale e perdiamo di vista la possibilità di farlo con le generazioni più giovani, per guardare il reale, relazionarsi al mondo reale con spirito critico.
Perché quando ti arriva il Bergoglio di Midjourney devi avere gli strumenti cognitivi per leggere quell’immagine come un’immagine fake. E se questo non accade è colpa dell’intelligenza artificiale?
Se ChatGPT scrive meglio di me non è colpa di ChatGPT è colpa del mio scrivere.
Scusate, sto facendo la parte di chi difende strenuamente la scrittura pubblicitaria perché in questo momento sto vedendo che gli esperimenti si fanno sulla pelle dei team creativi dentro le agenzie e sulle estreme polarizzazioni. In questo momento la partita più importante su questi temi si sta giocando nelle industrie creative, quelle della pubblicità, quelle del cinema, quella della musica. E io questo, scusate, non riesco proprio ad accettarlo e non riesco ad accettarlo perché credo che la molla che stiamo muovendo in questo momento sia il profitto. Provo a spiegarmi: io credo che ChatGPT entri dentro queste industrie con una forza devastante, per permettere maggiori marginalità rispetto alle basse manovalanze presenti all’interno delle agenzie di comunicazione digitale per esempio.
E questa paradossalmente è una straordinaria opportunità invece per noi. Per voi. Affinché torniate a farvi pagare la creatività e la smettiate di fare le consulenze al ribasso sulle strategie ai media e a svendere la pubblicità, la creatività pubblicitaria a due lire, perché tanto c’è sempre qualcuno che ve la farà pagare meno. Difendete le posizioni. Io il mio fee non lo abbasso perché c’è qualcuno che costa meno.
Abitiamo nel Paese dove gli spot pubblicitari venivano girati dai maestri del cinema, dove alcuni titoli venivano scritti da poeti contemporanei. Siamo il paese di Depero e Bozzetto. Qui ci siamo inventati l’economia civile nel 1750 a Napoli con il professor Genovesi. Siamo il Paese dove gli imprenditori erano i Branca, i Pirelli, i Crespi, i Ferrero, gente che metteva le biblioteche dentro le fabbriche.
L’economia mediterranea non ha nulla da invidiare a quella d’oltreoceano che arriva a indottrinarci con le teorie sui purpose, quando da queste parti avevamo gli Olivetti che facevano impresa in un certo modo.
Noi dobbiamo tornare a fare impresa guardando al medio e lungo periodo. L’intelligenza artificiale in questo senso può diventare un alleato formidabile nelle modellazioni predittive. Ma non credo che possa mai, mai, mettersi al posto di chi scrive, e non possa mai mettersi al posto di chi gira, di chi filma, di chi scrive musica, poesia, letteratura, avendo dentro una tensione espressiva. Altrimenti vincerà Netflix che deve sparare fuori 300 serie tv all’anno e le farà scrivere dall’intelligenza artificiale.
Ma è questo il mondo che vogliamo abitare? E scusatemi un’altra cosa: a me la nomina di Giuliano Amato non era dispiaciuta così tanto e ho trovato nelle polemiche che sono venute fuori in rete una trivialità veramente dozzinale. La prima cosa da fare in questo momento è normare l’intelligenza artificiale, certo studiarla, è normale, ma scegliere Giuliano Amato significa (io sono l’ultima persona in questo momento schierata con le attuali decisioni del governo, anzi) dare al mondo un segnale. Esattamente come quando il nostro Garante ha messo le mani su ChatGPT e tutti hanno detto all’Italia paese retrogrado. No, il nostro Garante ha detto attenzione, attenzione prima di tutto ai minori. Sono segnali. Sono segnali politici, sono segnali di sensibilità, sono segnali di attenzione, sono segnali empatici. Scegliere un giurista per normare l’intelligenza artificiale non significa usarlo come mentore illuminante, significa dire al mondo noi da queste parti questa cosa vogliamo guardarla prima di tutto dal punto di vista dei diritti delle persone e di chi produce contenuti per questo mondo.
Vi faccio vedere una cosa che non ho scritto io e infatti è bellissima: una campagna che è andata in Perù, firmata da Nikon. A parte che quando le campagne pubblicitarie finiscono in un telegiornale avete fatto bingo, questa cosa l’ho imparata da un collega molto più grande di me, molto più premiato di me, il quale mi ha detto a un festival della creatività: “quando fai la prima riunione con il team creativo non farti portare layout, fai la prima riunione creativa e fatti portare il comunicato stampa della campagna”. È vero. Se il team creativo ti porta il comunicato stampa della campagna, vuol dire che quella campagna è destinata a lasciare un’impronta nel mondo e che quelle campagne finiscono èper diventare oggetto di conversazione. Anche una pesca è diventata oggetto di conversazione nel carrello di un supermercato, ma questo è un altro discorso che stasera vorrei non affrontare, se possibile.
https://www.youtube.com/watch?v=W4zl5UhkTds
È di una bellezza incredibile. Hanno affrontato il tema all’incontrario e hanno dato ai loro fotografi dei prompt per andare a inquadrare e a fotografare qualcosa che era irreplicabile (o forse sarebbe stato replicabile probabilmente da un’intelligenza artificiale). Ma per sensibilizzare l’intera industria della fotografia su quanto fosse importante il mondo fuori e quanto il mondo fuori fosse ancora tutto da guardare e da scoprire e soprattutto da fotografare. Perché, vedete, è vero che quando è arrivata la fotografia gli artisti visuali erano preoccupati, ma con la democratizzazione delle arti noi corriamo anche il rischio di perdere l’autorialità. Di chi firma la propria opera, la propria opera intellettuale, chiamiamola così, perché ogni volta che qualsiasi artista si esprime usa la propria arte per esprimere una parte di sé, in quel momento sta giocando una parte intellettuale, sta dicendo dove sta, sta dicendo cosa sente, sta dicendo quello che prova, quello che soffre, sta dicendo come ama, sta dicendo quello in cui crede. Allora questa è una componente che in questo momento secondo me dobbiamo tutelare.
In questo senso l’intelligenza artificiale non ci deve spaventare, va studiata, va analizzata, va normata in maniera importante perché il rischio più grande è che replichi i bias, le diseguaglianze, i razzismi, gli stereotipi di cui si sta nutrendo. Proprio qualche giorno fa è stato messo in circolazione un prompt dove è stato chiesto a un’intelligenza artificiale di generare. l’immagine di una modella da utilizzare in uno shooting beauty ed è stata rappresentata la classica bellona 90-60-90, tettona, bionda, caucasica. E questo è esattamente il topos narrativo che da anni l’industria della pubblicità, della bellezza, alcune marche stanno provando a combattere proprio perché quel tipo di stereotipo ha minacciato la salute mentale di tantissime ragazzine in tutto il mondo. E molte marche hanno preso posizione per fare in modo che questi luoghi comuni escano di scena, affinché le nostre ragazzine non si sentano più inadeguate rispetto alle immagini pubblicitarie, alle copertine che ci sono sui periodici, i riferimenti di un certo tipo di giornalismo televisivo o un certo tipo di presenza televisiva all’interno dei varietà. Ecco, l’intelligenza artificiale che si nutre di questi bias probabilmente potrebbe finire per replicare all’infinito questo tipo di modellizzazione del reale.
Il nostro compito in questo momento è tenere gli occhi ben aperti per sorvegliare gli studi, gli avanzamenti, gli addestramenti che vengono fatti di queste intelligenze. Dall’altra parte però non perdere lo sguardo sul mondo.
Federica Galli: “Rivolgendosi anche alla cosiddetta Generazione Z o ai millennial. Semplicemente come si fa oggi a essere creativi? Assodato il fatto che tu ritieni, che la creatività sia umana”.
È complicatissimo rispondere, nel senso che io posso parlare solo e soltanto per esperienza personale. Io ho prestato il mio scrivere alla pubblicità, perché sono stato fortunato. Nel senso che nel momento in cui ho intravisto la possibilità di guadagnare qualche soldino con il mio scrivere, la pubblicità pagava meglio del giornalismo e ho provato a vedere se il mio scrivere funzionava in quel contesto.
Il mio scrivere funzionava, ma per me la scrittura è sempre stata una specie di demone, ma io credo che quel tipo di tensione per cui ci troviamo a sentire la necessità di dire qualcosa a qualcuno, o c’è o non c’è. Cioè questo tipo di creatività, perdonatemi, non c’entra granché con quella più nobile, quella che appartiene alle arti di qualsiasi genere e tipo, è un’urgenza: cioè chi fotografa, chi gira film chi scrive poesia letteratura, musica sente proprio un’urgenza. Quella roba lì è proprio un bisogno che incornicia un destino, è una necessità che hai. Io avevo bisogno di scrivere, poi la mia vita ha fatto una curva abbastanza spericolata e nella mia storia è venuta prima l’urgenza di guadagnare e quindi ho prestato il mio scrivere a chi pagava meglio in quel momento.
Da questo punto di vista e oggi che ho la maturità e la consapevolezza per potermi anche permettere di scegliere a chi prestare il mio scrivere, desidero mettere l’asticella molto, molto in alto. Lo dico davvero, senza falsa modestia, perché noi adulti abbiamo la responsabilità di provare a essere modelli di riferimento. Per i creativi, per le creative più giovani, per le persone che vogliono fare questo mestiere, finalmente libere dalla fascinazione dello star system. Perché la pubblicità è stata vista per anni come una specie di Fabbrica delle meraviglie (cit.). È un mestiere meraviglioso, è un mestiere che può anche fare qualcosa per dire alle persone come migliorare il proprio piccolo pezzettino di mondo, purché ci si liberi di un po’ di batteri e un po’ di tossine che negli anni abbiamo accumulato perché pensavamo di essere nell’industria dello spettacolo. Eravamo professionisti/e e consulenti al servizio del mercato. Noi dobbiamo tornare a essere quella roba lì.
Vogliono le nostre idee, che ce le paghino. Altrimenti ChatGPT andrà benissimo.
Federica Galli: “E in questa direzione va anche il tuo ultimo libro Scrivere Civile, guida per allenare chi fa questo mestiere. Senza svelare troppo però vogliamo brevemente riassumere che tematiche affronti in questo testo?
A proposito di Scrivere Civile, molto velocemente, è un un lavoro che arriva quasi 15 anni dopo Invertising che sembrava l’opera di un pazzo che pensava che la pubblicità potesse cambiare il mondo. Ecco, forse non era così sbagliato quello che scrivevo nel 2010: Scrivere Civile onora chi ha fatto e sta facendo impresa in maniera illuminata in questo Paese. Proteggendo le persone, proteggendo le comunità, proteggendo i territori e la scrittura pubblicitaria può essere messa al servizio del cambiamento, purché non sia seduttiva, purché non sia manipolatoria. Purché abbia sempre come unico destinatario l’intelligenza delle proprie interlocuzioni, cioè considerare chi guarda quello che scriviamo come un interlocutore, un’interlocutrice dotatə di spirito critico.
Federica Galli: “Per chiudere, che consiglio vuoi dare a chi fa impresa, ed è presente in sala, per andare avanti, per tutelare anche possiamo dire le loro caratteristiche e la valorizzazione dell’impresa stessa”.
Io sono un pessimo consigliere e però c’è un tema che mi è sempre stato molto a cuore e lo so che è faticoso, lo so. E soprattutto quando ci sono momenti di congiunture sfavorevoli, quando ci sono recessioni, inflazioni, eccetera. Però quello che manca a tanta impresa e manca tantissimo anche alla politica è provare a guardare nel medio-lungo periodo.
Questo è veramente l’unico consiglio che mi sento di dare. Io mi relaziono tantissimo con imprenditori e imprenditrici, manager, CEO, CMO, e vedo che si riescono a fare progetti di questo tipo quando si guarda a quello che sarà l’azienda tra cinque anni, tra dieci anni. Allora disegni il tuo modo di stare sul mercato in un certo modo. Ho conosciuto anni fa un imprenditore valtellinese, che ha voluto conoscermi. Mi ha chiamato da lui, sono andato in Valtellina, mi ha portato a mangiare in un posto fantastico e mi fa: “Paolo, mi aiuti a capire cosa venderò io tra 15 anni?”
Il signore di cui stiamo parlando è grande, molto grande, stiamo parlando di un ottuagenario ossessionato dal chiedersi come trasformare la propria impresa con il mondo che andava in una certa direzione, che tipo di innovazione portare. Non mi chiedeva lo storytelling.
Allora capite che se un imprenditore del B2B ha questo tipo di ossessione, vuol dire che si sta attrezzando e sta attrezzando le proprie persone soprattutto a guardare al di là del prossimo quarter.
Guardare al di là del trimestre, questo credo che oggi sia la sfida più importante: quella di guardare verso un orizzonte più lungo. Questa è una riflessione che la politica invece non riesce a fare, è in continua campagna elettorale. Le vedete le scelte che vengono fatte, sono scelte che guardano al prossimo voto che sia un’elezione per il Parlamento europeo, che sia una Regionale che sia un‘Amministrativa, sono sempre e soltanto dichiarazioni elettorali.
A nessuno interessa fare un programma di sviluppo per il Paese, perché se tu facessi realmente un programma di sviluppo per l’Italia, in questo momento tutte le tue energie le metteresti sulla scuola.