Internet mi ha salvato la vita.
Alert spoiler: contiene anticipazione della Lectio in occasione della Laurea Magistrale Honoris Causa in Comunicazione e Pubblicità per le Organizzazioni, conferita dall’Università di Urbino.
Ho la stessa età del World Wide Web, o meglio, sono coetaneo del suo primissimo protocollo militare che ancora si chiamava Arpanet e che il 29 ottobre 1969 metteva in collegamento un ricercatore dell’UCLA con Stanford.
Nel settembre del 1969 viene costruita quella che potremmo chiamare la vertebra zero di Internet: il collegamento tra il router dell’UCLA e quello dello SRI, il primissimo tentacolino dell’enorme rete globale che ormai avvolge tutto il globo. Il 29 ottobre, Charles Kline cerca di loggarsi attraverso la “rete” nell’host di Stanford. Per farlo, digita LOG sul proprio computer, o almeno ci prova, perché il sistema finisce per collassare prima che possa terminare di inviare tutto il messaggio.
Sono coetaneo dell’Internet e mi piace pensare che in qualche modo il nostro destino abbia iniziato a intrecciarsi mentre il mondo conosceva i fasti dello sboom economico, e il mio scrivere per la pubblicità sarebbe arrivato solamente intorno alla fine dello scorso millennio.
(È un bel privilegio quello di aver attraversato in età adulta la soglia di un millennio, non volevo privarmi del gusto di sottolinearlo e di farvelo pesare.)
Avevo solo 4 anni quando Vint Cerf e Bob Kahn misero a punto il codice che permise a quel primissimo nodo di diventare globale e mentre scrivo ci sono circa cinque miliardi di persone collegate alla Rete. E credo si possa tranquillamente evidenziare il fatto che Internet abbia cambiato la vita anche a moltissime di loro.
Sì, perché è stato grazie anche al digitale che abbiamo potuto continuare a lavorare, comunicare, legiferare, informare, vivere e amare, da dentro un’emergenza sanitaria che ha coinvolto l’intero pianeta. E questo vale anche per la maggior parte di voi.
Ma a me Internet ha salvato la vita in tempi non sospetti, diciamo una trentina d’anni fa, quando la pandemia era uno scenario distopico dentro qualche Urania d’annata e io mi avventuravo tra i banchi dell’università e i tavoli di una pizzeria.
Eravamo alla vigilia del millennium bug, decisi di lasciare sia l’università che la pizzeria, perché scrivere la pubblicità mi sembrava infinitamente più urgente per le mie sorti finanziarie.
Non che le agenzie pagassero granché, ma scrivere la pubblicità era l’unico espediente che avevo trovato per farmi corrispondere un tornaconto economico dall’unica cosa che sapevo fare abbastanza bene, oltre a servire birre e tranci di pizza nelle serate dei fine settimana.
Ve lo racconto come l’ho scritto dentro uno dei miei libri qualche anno fa, perché rende abbastanza l’idea di come sia iniziato il mio cimento:
“Ho cominciato a scrivere la pubblicità a cavallo tra la fine degli anni ottanta e i primi anni novanta, in piena euforia da iperconsumo, quando l’advertising viveva una specie di sbronza surrealista, come dentro un caleidoscopio di riflessi luminosi, colori e immagini, a creare un mondo magico e ricco di suggestioni. I copywriter di allora usavano le parole come ceselli, scolpendo paratassi e incidendo sintesi magistrali che risuoneranno per anni nei tormentoni che i nostri padri porteranno dentro le proprie esistenze. I Maestri stavano sopra la linea, si chiamava above the line infatti la pubblicità di chi scriveva gli spot, i poster, i comunicati radio e le pagine di quotidiani e periodici. Dettavano le regole della comunicazione commerciale mainstream, quella appunto che tutti vedevano perché veleggiava sopra una linea immaginaria — che per i più era l’occhio del consumatore — e che un po’ li avvicinava ai personaggi dello star system, rendendoli carismatici perché creativi, arguti, geniali o provocatori. Io invece ero tra i copywriter sotto la linea, altrimenti detta below the line. Ero cioè tra quelli che scrivevano le lettere del direct marketing, gli script dei primi call center, i cataloghi delle raccolte punti, le brochure, i pieghevoli e tutto ciò che l’occhio del grande pubblico non vedeva, ma che ci faceva sentire parte di un’industria fiorente, rutilante e piena di nuove prospettive”.
Internet mi ha salvato la vita perché quando arriva nel nostro Paese ed entra nelle agenzie di comunicazione, finisce dritta dritta sulle scrivanie di noi copywriter del below the line. Nessuno aveva ancora capito cosa fosse, gli investimenti delle aziende non erano ancora così importanti, le piattaforme erano ancora da venire e io avevo bisogno di scrivere. Nessuna urgenza esistenziale, avevo bisogno di scrivere perché scrivere significava essere pagato. È poco romantico, mi rendo conto, ma è la verità.
“Abbiamo iniziato a scrivere i primi siti web come si scrivevano i cataloghi aziendali, senza riflettere più di tanto sulle nuove dinamiche che stavano prendendo forma tra parole, immagini e gli utenti al di là dei monitor. Questi ultimi soprattutto guadagnavano una permeabilità diversa rispetto agli spettatori dietro gli schermi e i media della pubblicità tradizionale. Prima che il secolo scorso voltasse pagina tra i fantasmi del millennium bug, internet era ancora sotto la linea, i social network erano lontani e le nostre pagine web erano poco più che pdf interattivi. La velocità della connessione impediva di arricchire le esperienze digitali con video, file multimediali e altre forme d’interazione, quindi la scrittura di questi oggetti finì sulla mia scrivania e non su quelle dei piani alti”.
La vera rivoluzione digitale era abbastanza lontana, mancava ancora qualche anno per vedere l’esaltazione della copertina di Time che ci magnificava come “Person of the year” con lo YOU sovraimpresso sullo schermo di un computer realizzato in modo che chiunque di noi potesse usarlo come specchio, tuttavia cominciavo a intravedere un diverso modo di affrontare il mestiere della pubblicità e Internet mi dava la possibilità di ripensare l’atteggiamento progettuale con cui scrivere i miei messaggi.
Spiego: fino a quel momento la mia scrittura per la pubblicità si muoveva in maniera consequenziale da un punto A a un punto B. La linearità orizzontale era l’unico asse attraverso il quale le nostre parole s’inseguivano sulla pagina e davamo forma alle nostre suggestioni articolando i nostri periodi da sinistra verso destra.
Internet ci costringeva a una dimensione nuova: quella verticale, che andava da su a giù, e poi poteva tornare su, o muoversi in diagonale su qualsiasi altro punto della pagina.
La scrittura digitale insomma, mi stava insegnando che non ero io a decidere come l’utente avrebbe raccolto ciò che avevo da dire, ma i primi lui o lei davanti al monitor di un computer e poi davanti a un tablet e infine davanti allo schermo di uno smartphone, avrebbero deciso in autonomia il percorso da dare alla fruizione dei contenuti. Questo mi costringeva, ci costringeva, a una responsabilità inedita che non era stata ancora sperimentata fino a quel momento, mettere il controllo nelle mani di soggetti fino a quel momento passivi nei confronti della comunicazione pubblicitaria.
Probabilmente vi sarà capitato di inciampare nelle pagine di Giampaolo Fabris, Francesco Morace o altri/e che hanno dato al popolo del consumo un potere inedito e a loro dire “rivoluzionario”: consumattori, prosumer, consumautori e altri neologismi ci hanno fatto intravedere individui nuovi, buoni o cattivi a seconda che partecipassero alle nostre narrazioni o che “armati di pietre”, come voleva il Cluetrain Manifesto di qualche anno prima, fossero pronti a scompaginare le nostre finzioni retoriche per smascherare i trucchi del marketing e della pubblicità.
Per molti versi infatti Internet aveva contribuito anche a togliere il velo immaginifico che aveva avvolto la comunicazione d’impresa fino a quel momento, per avvicinare moltissimo le marche al proprio pubblico, disintermediando una serie di informazioni e facilitando la relazione su piani narrativi del tutto inediti rispetto ai canali tradizionali. Tuttavia non riuscivo a gioire di questa situazione e intravedevo il rischio concreto di una possibile debacle del mestiere. E siccome avevo appena ottenuto un secondo mutuo, avevo una giovanissima famiglia a cui provvedere e amavo profondamente questo lavoro, mi misi in testa di provare a salvare la professione da una possibile estinzione.
Perché, se era vero che come tutti i mestieri di mediazione, anche quello della pubblicità avrebbe potuto in un futuro prossimo venturo essere destinato a ridimensionarsi significativamente, com’è accaduto a tutte le categorie colpite dalla disintermediazione, il mio punto di vista era quello di chi voleva concentrare le proprie attenzioni sulla generazione delle idee che stava dietro gli oggetti della pubblicità.
Prima ancora che sulla scrittura, per me l’importante era attrezzare la professione con nuove sensibilità e nuove attitudini nell’interazione con il pubblico dei nostri messaggi.
Ho usato la parola pubblico perché non ho mai amato particolarmente la parola target, il pubblico costringe a cercare un applauso, il target chiede di essere centrato come un bersaglio mobile. Da una parte il vocabolario della guerra, dall’altra quello dell’amore. Leggete Lovemark di Roberts se volete cogliere appieno la forza di questa piccola rivoluzione semantica.
Nel 2010 riuscii a mettere in fila questo tipo di pensiero dentro un libro che già nel titolo voleva imporre un nuovo senso di direzione al mestiere della Comunicazione d’Impresa.
L’idea di Invertising nacque il primo giugno di parecchi anni fa. Al Festival dell’Economia di Trento faceva coraggiosamente capolino uno dei miei primissimi Keynote che avevo intitolato appunto Invertising.
In prima fila, tra le altre persone, c’era un signore attentissimo, che mi chiese un articolo di 4000 battute per provare a sintetizzare dentro il suo settimanale quell’idea di una pubblicità nuova. Il signore in questione era Luca De Biase e il settimanale era il suo mitico Nòva24 che ogni giovedì prendeva le mosse dalle pagine de Il Sole 24 Ore.
Quel weekend scrissi circa 20.000 battute in una specie di trance agonistica che nei mesi successivi prese forma nelle 200 pagine che ancora oggi vengono lette, studiate e rilanciate da giovani che si avvicinano al mestiere della pubblicità con una sensibilità che oggi sembra essere l’unica percorribile.
L’inversione di marcia
Cosa c’era dentro quel keynote del 2009 al Festival dell’Economia di Trento da suscitare così tanta attenzione nei confronti dell’Invertising? Quelle duecento pagine sono finite nei piani di studio di università, corsi di formazione, master, seminari e workshop, diventando per tre anni anche un blog di wired.it e guadagnando un importante riconoscimento da parte di Treccani.it che ha inserito Invertising tra i neologismi monitorati all’interno di una rubrica settimanale dedicata alle nuove parole del contemporaneo.
Ma, soprattutto, Invertising ha dato il nome a un corso di pubblicità per giovani creativi all’Istituto europeo di Design di Milano, è stato oggetto di insegnamento presso la Scuola Politecnica di Design ed è stato utilizzato durante le lezioni di Design della comunicazione del Politecnico milanese e della Domus Academy. Come se questi temi avessero cominciato a uscire dai perimetri delle facoltà di Scienze della comunicazione, marketing ed economia, per avvicinarsi anche a chi la comunicazione la progetta, la disegna, la crea, fuori e dentro la Rete.
E infatti Invertising parlava di creatività. Metteva gli ideali vicino alle idee. Chiedeva alle marche di adottare nuovi linguaggi per provare a coinvolgere un pubblico sempre più disincantato e critico.
Il sottotitolo del saggio invitava all’inversione di marcia. Una metafora resa quanto mai necessaria da uno scenario economico drammatico, ma principalmente da un sentimento di sfiducia e rancore verso spot, manifesti, pagine pubblicitarie, banner e tutto ciò che quotidianamente alimentava il “magico” mondo dell’advertising su scala globale.
Oggi che la comunicazione d’impresa si affaccia definitivamente sui temi del purpose, dell’attivismo e delle prese di posizione, è bene capire quando realmente sia successo che il mio mestiere abbia creato le condizioni per poter dialogare in maniera nuova con i propri interlocutori.
Abbiamo già visto quanto Internet sia stata capace di metterci a disposizione gli strumenti per queste interazioni inedite, ma esiste un reperto archeologico al quale possiamo far riferimento per risalire alla datazione certa di un nuovo atteggiamento pubblicitario?
Come Alessandro Baricco all’interno di The Game, mi piace guardare al passato e intercettare segnali primordiali, avvisaglie, testimonianze — vivide o virtuali — che hanno fatto detonare il gioco che stiamo vivendo e che ancora di più ci troveremo a vivere nei prossimi anni.
In questo caso, la datazione certa è a cavallo tra la fine del 2006 e l’inizio del 2007, il reperto è la copertina di Time citata più sopra e che stabiliva l’inizio di un nuovo tempo per chiunque avesse a che fare con il mondo dei media e della comunicazione, ivi compresa quella pubblicitaria.
Perché alla fine del 2006 l’intuizione di Time fu quella di celebrare la nuova era dell’informazione, premiando ogni cittadino della Rete con l’ambìta copertina che celebra la persona dell’anno. «Sì, proprio tu. Tu controlli l’Età dell’Informazione. Benvenuto nel tuo mondo». Nessuno poteva immaginare che quella sarebbe diventata una nuova icona, in qualche modo, «rivoluzionaria».
Ma la copertina di Time non era l’unica ad annunciare l’arrivo di una nuova era. Il 2007 fu l’anno in cui una serie di autorevolissime testate si trovarono ad affrontare l’argomento, celebrando, ciascuna per il proprio contesto di pertinenza, una sorta di svolta epocale giunta ormai a maturazione e che poteva quindi guadagnare la ribalta del grande pubblico.
Una per tutte, il primo «nudo» di Wired, la rivista americana considerata la bibbia di Internet, della tecnologia e dell’innovazione, che giocò a scandalizzare i suoi lettori con una copertina che parlava direttamente alle imprese protagoniste del Mercato.
Il numero era quello di aprile 2007, la signorina svestita è Jenna Fischer la segretaria della fortunatissima serie televisiva statunitense «The Office». A metà tra il reality e la fiction, «The Office» raccontava la vita quotidiana dei suoi protagonisti in un ufficio del terziario avanzato ed è per questo che Jenny Fischer diventava metafora per annunciare le regole di un nuovo mondo ai diretti interessati.
Il titolo scelto da Chris Anderson, il direttore editoriale di Wired negli Stati Uniti, era perentorio e non lasciava margini di dubbio circa l’obbligatorietà dei nuovi percorsi: «Get Naked».
Era la trasparenza l’ingrediente fondamentale per guidare il mondo. Quindi, mettersi a nudo, diventava il valore determinante per relazionarsi con un mercato che, grazie al potere della Rete, accedeva direttamente alle informazioni, disintermediando i processi e sostituendosi di fatto alle compassate comunicazioni istituzionali.
La fiducia si sarebbe guadagnata senza finzioni e sovrastrutture, ciascuno avrebbe dovuto imparare a relazionarsi con un pubblico che non avrebbe lasciato scampo, perché attraverso la conversazione poteva favorire o meno il tuo operare. Wired annunciava al mondo che la «radical transparency» era una delle parole chiave per trovarsi ad essere tra i protagonisti dei giorni a venire.
Tra il 2005, il 2006 e il 2007 il mondo della pubblicità sembrava non riuscire più a trovare il bandolo della matassa. Dopo le copertine di Time e Wired, ci si metteva pure la prestigiosa rivista americana Advertising Age a scompigliare lo scenario con una prima pagina decisamente impertinente. Come da tradizione, il primo numero dell’anno è quello in cui si elegge «The Agency of the year», il cui riconoscimento è chiaramente un credito importante da spendere nei new business dell’anno che va ad incominciare, oltre che premiare il lavoro fatto in quello appena concluso.
Nel gennaio del 2007 la giuria di Advertising Age non ha la minima esitazione nello stabilire che l’agenzia dell’anno era il consumatore.
La notizia era di quelle che turbano un po’, perché il 2.0 non veniva più confinato tra le pagine di un mensile fanatico di tecnologia o nel sensazionalismo giornalistico del Time, bensì entrava nelle prestigiose sedi dell’advertising mondiale direttamente dalla porta principale.
Per fatti concludenti, direi che possiamo sicuramente stabilire con datazione certa l’anno 2007 come quello che ha segnato in maniera definitiva un importante cambio di passo per il mestiere della pubblicità. Peraltro, proprio nel 2007 finivo sul tavolo della giuria del più importante festival della creatività mondiale, quello di Cannes, e sulla Croisette si respirava un’aria particolarmente diversa rispetto alle edizioni precedenti.
Proprio perché Cannes è considerata una delle più importanti celebrazioni mondiali della creatività pubblicitaria, non poteva permettersi di restare indifferente alla ridda di provocazioni che si erano accumulate dall’inizio dell’anno a giugno. Libri, blog, articoli danzavano sulle ceneri dell’advertising tradizionale, seminari e talk-show dentro il Palais s’interrogavano sul futuro della professione, mentre il premio nobel Al Gore intratteneva gli ospiti di Young & Rubicam sul cambiamento climatico e sui rischi ambientali, cosa quantomeno curiosa per un audience di professionisti più sensibile al green marketing che all’ecologia.
Tra gli appuntamenti più seguiti ricordo il dibattito con David Droga, uno dei direttori creativi più premiati al mondo, a capo dell’agenzia omonima, intervenuto alla tavola rotonda intitolata profeticamente: «Now or Never: Reinventing the Agency Model».
E ancora, un altro simposio dal titolo altisonante, quello di Getty — «Tasting the limits» — con il direttore creativo di MTV International a discutere, appunto, le nuove frontiere della creatività.
Ovviamente i centri media non potevano stare a guardare e Zenith Optimedia organizzava il suo seminario titolandolo «The perfect storm», una tempesta così perfetta che il network internazionale G2 invitava ad attraversare senza indugi nel titolo di un altro invito: «Explores new definitions of creativity».
Poi ci sono stati i Leoni, quelli d’oro, d’argento e di bronzo. Ma soprattutto i Grand Prix, i riconoscimenti più importanti di ogni categoria. Perché il Festival è solito premiare le creatività più belle del mondo, suddividendole per canale. Quindi dopo aver premiato per anni le campagne sui media tradizionali come tv, radio, stampa e affissione, nel tempo ha accolto nuove categorie come il Direct Marketing, Internet, le Promozioni, fino al Design, introdotto proprio nel 2007.
Il Grand Prix, dicevo, è il trofeo più ambito di ogni categoria. Premia la campagna più bella espressa sul media di riferimento a prescindere dalla divisione merceologica con cui invece si attribuiscono i diversi Leoni, per cui la tv (Film Lion) potrà avere un Leone d’oro per la pubblicità automobilistica, uno per le bevande alcoliche o uno per il largo consumo, ma solo un Grand Prix celebrerà la campagna televisiva più bella del mondo, indipendentemente dalla categoria di riferimento.
Nel 2007 alcune giurie decisero di dare un messaggio di rinnovamento all’intera comunità e usarono l’attribuzione del Grand Prix per sensibilizzare tutta l’industria sulle nuove direzioni da intraprendere. E fu proprio il premio più importante, il Grand Prix televisivo, quello che confermò il 2007 come l’anno dell’inversione di marcia.
L’anno in cui i fatti dimostrarono che una cosa è spingere fuori un messaggio pubblicitario rivolto a un target di massa, altra cosa è tirare a sé chi trova qualcosa di interessante nelle cose che abbiamo da dire.
(continua)
È abbastanza evidente: non basterà un’ora accademica per questa Lectio.
E probabilmente ci si metterà anche l’emozione a rendere più complicata l’esposizione di un racconto che attraversa un ventennio cruciale: inizia con l’attentato alle Twin Tower e culmina con una pandemia globale, in mezzo, una delle crisi economiche più importanti che la storia ricordi, una nuova rivoluzione industriale, una tempesta mediatica senza precedenti e una serie di paradigmi inediti che ha sconvolto società, politica, cultura ed economia.
Lunedì 15 novembre alle 11,30 sarò a Urbino per parlare di Pubblicità Civile. Non me ne voglia la Commissione Universitaria, non me ne voglia la professoressa Lella Mazzoli che anni fa per prima ha proposto al Rettore di allora, Vilberto Stocchi, l’idea di questo conferimento; non me ne voglia il Pro Rettore di oggi, Giovanni Boccia Artieri e tanto meno il titolare di questa iniziativa, il Magnifico Rettore Giorgio Calcagnini, ma questa lezione non è stata confezionata con intenti accademici: è stata scritta per le tantissime persone che nelle diverse Università stanno studiando per fare il mestiere della Comunicazione d’Impresa e io davvero non lo so se ce l’ha un futuro questo mestiere.
Sento la responsabilità di trasmettere a questi ragazzi e a queste ragazze la scomoda verità di una professione che oggi paga gli errori di chi ha fatto fortuna sgretolando gli immaginari, manipolando i bisogni, ignorando le tensioni e facendosi beffe delle svariate emergenze che sfilavano sotto i loro powerpoint: sociali, climatiche, economiche o culturali che fossero.
La Pubblicità Civile è la tesi che prova a definire il futuro della comunicazione d’impresa, per dare un futuro alla comunicazione d’impresa.
Potrà essere seguita in presenza o in diretta streaming. Grazie agli amici di GoodMood sarà messa a disposizione anche su Spotify e sulle principali piattaforme audio nella sua versione integrale, ché davvero io non sono riuscito a dire tutto quello che volevo dentro i tempi imposti dalla liturgia del conferimento.
Mi scuso in anticipo per questo e ringrazio sin d’ora chiunque in questi giorni ha saputo di questa laurea e ha condiviso emozione, stima, amicizia. I miei feed sono stati travolti da un’ondata di affetto che mi ha fatto capire quanto sia importante continuare a perseguire questo tipo di atteggiamento.
Lo Scrivere Civile è un impegno che costringe a gentilezza e civiltà. Che pesa le parole, si schiera, alza la voce, ma non urla, rispetta l’interlocuzione, ascolta, interagisce, rinuncia alle promesse, per definire nuovi patti di relazione. Ma soprattutto agisce, finalmente il nostro scrivere può definire campi d’azione, progettualità e prese di posizione.
Non ho cercato la retorica del tweet virale per consegnarvi un meme alla Steve Jobs. Non incontrerete il mio Stay Hungry, Stay Foolish. Ma se proprio ci tenete, allora siate insoddisfatti. Sempre e il più possibile.
Non è roba mia, l’ha detto il Vint Cerf di cui sopra, uno dei padri fondatori di Internet, in una bella intervista rilasciata a Riccardo Luna l’estate scorsa.
Il futuro lo costruisce chi è insoddisfatto, da sempre ci evolviamo perché qualcuno è insoddisfatto di come stanno le cose. Invito tutti a essere un po’ insoddisfatti.
Ho aperto questo lungo post con le prime pagine della mia tesi e chiudo con l’ultimissimo passaggio perché credo che un tempo così incerto non sia ancora pronto per nuove regole, ma possiamo provare a scrivere insieme i nuovi destini di questa professione, soprattutto con l’aiuto di chi la sta studiando.
Contribuire al disegno di progetti di comunicazione che abbiano un impatto positivo e possano dare una risposta alle sfide che questo tempo ci impone, creando valore per l’ambiente in cui viviamo, dovrebbe essere questa la vocazione ultima di chi, come me, fa questo mestiere.
Da qualche tempo diventa sempre più complicato individuare parametri certi per parlare di ROI e KPI. Forse è vero che l’unico ritorno sull’investimento si dovrebbe misurare con il numero di persone che riusciamo a sollecitare per essere parte attiva di un cambiamento.
A furia di insegnare la poetica del racconto e le arti dello storytelling, spesso abbiamo finito per banalizzare una serie di significanti che hanno bisogno di meno narrazione e di molto più agito. Abbiamo desemantizzato il lessico del nostro mestiere finendo per compromettere la fiducia di chi ci dovrebbe ascoltare. Alla fine siamo diventati poco rilevanti, proprio noi che dovremmo fare del racconto un agente trasformativo.
La sacralità del racconto nasce nel momento in cui le emozioni dei nostri pubblici — che vedono, leggono, ascoltano e consumano — incontrano l’autenticità della sorgente, che deve provare ad allontanarsi da intenti seduttivi fini a se stessi e dalla manipolazione di un certo sentire che molto spesso, troppo spesso, diventa piaggeria, compiacimento e vanità.
Ogni volta che si scrive una storia si parte in qualche modo da una tensione, specie nel mestiere della creatività pubblicitaria che abbraccia il consumer insight e ora, sempre più spesso, finisce per abbracciare tensioni culturali. La narrazione dell’impegno da parte delle marche le costringe a un racconto che è fatto sì di parole dette ma anche di parole agite. Le azioni devono corrispondere alle parole.
Chiunque oggi si trovi a raccontare delle storie nuove, soprattutto relative a temi così delicati, spinosi e spesso spaventosi, ha il dovere di farlo con rispetto, quel rispetto che è dovuto alle persone che portano dentro la propria vita le nostre parole.