Introduzione alla scrittura civile
Viene presentato a Bookcity Milano. Qui le parole che aprono il saggio dedicato alle riflessioni per una comunicazione più civile.
Ho usato lo spazio destinato a promuovere i maglioni per metterci migranti e condannati a morte. (Oliviero Toscani)
Il 1° gennaio 2019 una lunga catena umana fatta di oltre tre milioni di donne inondava le strade del Kerala in cerca di giustizia: soltanto qualche mese prima una sentenza della Corte Suprema aveva finalmente dichiarato discriminatorio il divieto di accesso al tempio induista di Sabarimala, nel Sud-Est dell’India, per le fedeli in età fertile. Eppure gruppi di fondamentalisti continuavano a riunirsi davanti al santuario impedendo l’accesso alle donne tra i dieci e i cinquant’anni, in barba alle leggi e ai nuovi diritti civili appena acquisiti.
Un muro di persone lungo seicento chilometri (per capirci, più o meno la distanza che separa Roma e Milano) scese in piazza a dire basta, rivendicando la parità di genere e cercando di abbattere altri muri, ben più antichi e difficili da buttar giù. Il giorno dopo due donne salirono a piedi nudi i diciotto scalini del tempio, e poi ancora una terza. Pochi passi che hanno portato il mondo su strade nuove. Ma quella in Kerala non è stata l’unica manifestazione del 2019, anzi.
Il 2019 ha visto il ritorno in piazza di milioni di persone in tutto il mondo: dal Sudan all’Algeria, dal Cile all’Argentina, da Hong Kong a Taiwan, folle deluse e arrabbiate si sono ritrovate a protestare contro regimi oppressivi, disuguaglianze sociali, crisi economiche e carovita.
Solo nell’ultimo trimestre dell’anno le manifestazioni hanno interessato ben trentasette Paesi nel mondo, centoquattordici in tutto il 2019.
A settembre, la week for future si è conclusa portando in piazza quattro milioni di giovani in sciopero contro il cambiamento climatico, una manifestazione di dissenso che si è attestata come la più partecipata di sempre tra quelle a tema ambientalista. Certo, le cause sono diverse ma sembrano avere tutte un tratto in comune: dal movimento #metoo alle proteste anti-regime in Egitto, dagli attivisti del Black Lives Matter alle proteste in Catalogna: le persone si sono servite di un nuovo tipo di comunicazione, di un nuovo modo di stare al mondo, o forse addirittura di una nuova idea di mondo. Internet è stato un alleato fondamentale nel creare comunità forti anche su grandi distanze, riuscendo a trasformare quelle che in altre epoche sarebbero state manifestazioni locali in movimenti a scala globale.
E se la pandemia ha messo un freno a quelle piazze, il malcontento che stavano esprimendo non è sparito, anzi. Le disuguaglianze si sono fatte sempre più gravi: secondo un rapporto di Oxfam, La pandemia delle disuguaglianze, appunto, in questi due anni di crisi sanitaria i dieci uomini più ricchi del mondo hanno più che raddoppiato i loro patrimoni, mentre 163 milioni di persone sono cadute in povertà. Un divario che cresce letteralmente di ora in ora (per la precisione, al ritmo di 54 milioni di dollari l’ora).
Per mesi abbiamo atteso il ritorno a un certo tipo di normalità, anche se la verità era sotto gli occhi di tutte e tutti: nel prima non c’era proprio niente di normale. In pochissimi mesi ci siamo accorti dell’esistenza di tutta una serie di filiere che per anni sono rimaste invisibili, categorie di lavoratrici e lavoratori indispensabili ma spesso dimenticate. Ci siamo resi conto di quali fossero davvero i prodotti essenziali per le nostre esistenze. Abbiamo fatto pace con il digitale, arrivando a costruire una realtà ibrida – metà fisica e metà virtuale — che abbiamo abitato soprattutto nei mesi di lockdown più feroce.
Oggi è arrivato il momento di trovare nuovi paradigmi attorno a cui sviluppare la nostra società, modelli che vadano oltre il solo profitto economico, altrimenti non avremo scampo.
La pandemia ci ha insegnato che è necessario cambiare rotta, e cambiarla adesso. Ci ha mostrato con crudeltà infinita tutti i limiti del nostro sistema economico, ci ha trascinato sul ciglio di un burrone dal quale non rischiano di cadere soltanto le industrie, ma anche la politica, la cultura, la scuola, la sanità. Perché questa non è più soltanto una crisi economica, ma è soprattutto una crisi sociale e culturale: un momento di transizione che ci porterà, anzi che deve necessariamente portarci, verso una rinnovata idea di comunità.
Perché un mondo sempre più globalizzato significa anche più responsabilità. Sono le persone a chiederlo: secondo i dati Ipsos del 2021, il 65% dei consumatori e delle consumatrici pensa che sia giusto che le aziende si espongano in prima persona rispetto a tematiche sociali rilevanti, contro il 46% di solo un paio di anni prima. Ma non solo: la stragrande maggioranza pensa che il compito di un’impresa sia quello di occuparsi della qualità della vita delle persone alle proprie dipendenze, ma anche di prendersi cura della comunità in cui lavora.
Insomma, è arrivato il momento di ripensare davvero il nostro tempo.
E siccome il cambiamento passa attraverso le narrazioni, è arrivato il momento di stabilire nuove regole, nuovi paradigmi anche per il linguaggio pubblicitario. Penso sia vero che il nostro è un mestiere tutto da riscrivere, perché per troppi anni la pubblicità non è riuscita a sincronizzarsi con quel che stava accadendo nel mondo. Oggi il malcontento non può più essere ignorato, bisogna fare i conti con le ingiustizie e le disuguaglianze che infestano la nostra epoca prima di arrendersi compiacenti davanti al proprio scrivere. E non solo perché, per essere efficace, il linguaggio pubblicitario ha bisogno di rimanere in ascolto degli umori della gente, ma soprattutto perché fare pubblicità oggi non significa soltanto vendere un prodotto, ma piuttosto instaurare una conversazione, definire un canale di comunicazione che l’azienda usa per veicolare i propri valori, anzi il proprio valore nel mondo. Un valore che non può tradursi soltanto nei termini che il consumo ci impone, ma che è da leggersi come lo sforzo che ci imponiamo per creare una realtà migliore, per creare prodotti che possano davvero migliorare la vita di chi li sceglie.
Nel 2009 pensavo che fosse necessaria un’inversione a U nella comunicazione pubblicitaria, credevo che avessimo bisogno di imboccare un nuovo senso di marcia, tanto che arrivai a coniare una parola tutta nuova per definire quel tipo di approccio narrativo: invertising. Eravamo alle porte di una crisi economica globale che avrebbe spazzato via milioni di posti di lavoro e le aziende non potevano più raccontarsi seguendo gli stessi schemi di pensiero che le avevano portate fin lì. Il marketing figlio del boom economico non riusciva più a stare dietro al tasso di disoccupazione che cresceva, ai salari che diminuivano, alla recessione. Quel marketing si occupava soltanto di capire i costi/benefici per gli stakeholder delle aziende, dimenticandosi completamente delle comunità a cui stava parlando.
Oggi che da più parti si assiste a una certa euforia per quelli che sono i temi del purpose, dei valori delle marche messi in comunicazione, dobbiamo prestare la massima attenzione per proteggere la bontà di questo mestiere che resta ancora una questione di idee e di creatività, ma che finalmente può davvero impattare in maniera tutta nuova sulla vita delle persone, sulle collettività, sull’immaginario, sulle comunità e sul territorio.
Può migliorare, insomma, un piccolo pezzo di mondo. Dopo l’inversione a U, oggi è necessario percorrere un nuovo tratto di strada, una strada che sia civile. E poco importa se dovremo affrontare una salita, la pubblicità deve guadagnarsi il proprio diritto di cittadinanza in questo mondo in subbuglio, in questa epoca ibrida: solo così potrà tornare a essere ammirata, ascoltata, vissuta e — perché no? — persino amata.
Probabilmente dovremo passare attraverso una ridefinizione del linguaggio, per arrivare poi a nuovi immaginari, a nuove storie in cui riconoscersi. Ma soprattutto dovremo ripensare il capitalismo in un’ottica sociale, definendo un sistema economico che non guardi soltanto al profitto. Perché la pubblicità non è che l’ultimo anello in quella catena di responsabilità che l’azienda ha verso la propria clientela. È uno sforzo creativo, di definirsi e riconoscersi in chiunque, ma può essere rilevante soltanto quando credibile, ovvero coerente.
In queste pagine proveremo a studiare i tratti di questo nuovo tipo di pubblicità, che io definirei civile. Civile perché si rivolge a un nuovo tipo di individui, che non premia più la voracità tossica del profitto a tutti i costi, ma che fa di ogni acquisto una scelta civica, che entra nei camerini dei negozi come se fossero delle cabine elettorali, che esprime il proprio voto attraverso i suoi scontrini. Insomma, una pubblicità che sia civile prima di tutto tratta chi compra come cittadini e cittadine e non più soltanto come un target di consumo.
Ma la pubblicità diventa civile anche quando è in grado di ribaltare i paradigmi e spingere all’azione. Quando riesce a costruire narrazioni che siano davvero al servizio del bene pubblico, quando si pone come obiettivo un impatto sociale e culturale che migliori la società intera.
Non basta più ammantarsi dietro a un nobile purpose: oggi ciò che conta è come un brand agisce nel mondo reale, in che modo si fa portatore del cambiamento, quanto coraggio dimostra quando baratta un po’ di consenso per sollevare un dibattito all’interno della società. Perché contribuire al disegno di progetti di comunicazione che abbiano un impatto positivo sulle comunità e sull’ambiente, progetti che possano dare una risposta vera alle sfide che questo tempo ci impone, dovrebbe essere la vocazione ultima per chiunque si occupi di comunicazione pubblicitaria, e non solo.
“Nelle prossime pagine non c’è l’arroganza di rispondere a problematiche così complesse e articolate. Mi limito a offrire un punto di vista sui temi del marketing e della comunicazione, che sono intimamente legati agli andamenti congiunturali e allo sviluppo economico”: così scrivevo nell’introduzione di Invertising. Mi sento di dover stabilire lo stesso patto con chi si appresta a leggermi anche qui, tanto più che questa epoca incerta in cui stiamo vivendo non ci fornisce appigli sicuri e per quanto si provi a fotografare l’evoluzione della società, la sensazione è che il cambiamento sia una cifra distintiva e non solo una fase di passaggio.
Forse non tutto è perduto, almeno se proveremo a cercare le risposte non tanto nella tecnologia quanto nella cultura digitale. Credo che potremmo fare un salto di specie se anziché interrogarci su quanto fosse meglio il prima o su dove finiremo domani, cercassimo davvero di capire come funziona questo tempo sospeso. Siamo di fronte a un bivio antropologico: da una parte il ritorno a strade già battute, dall’altra un sentiero inesplorato di cui abbiamo pochissime tracce ma che sembra ricco di possibilità.
Da parte mia, sento che è necessario tracciare una sorta di anatomia dello scrivere civile, non un manuale ma piuttosto un primo abbozzo di un nuovo corpo narrativo, di un’entità che assomigli sempre di più alle persone a cui si rivolge e in cui le persone possano riconoscersi davvero. Inizieremo dallo scheletro, anzi dalla spina dorsale, quella senza la quale la pubblicità civile non potrebbe neppure stare in piedi, ovvero l’economia civile: dalla Scuola napoletana del Settecento, vedremo come questo modello economico abbia caratterizzato buona parte della piccola e media impresa italiana fino all’inizio del Novecento, e come potrebbe tornare protagonista grazie alla rivoluzione digitale. Perché il digitale è la linfa di questo corpo, essendo riuscita a cambiare ogni paradigma della comunicazione pubblicitaria a partire dalle persone, che oggi sono più attente e informate, pronte a scompaginare ogni finzione retorica e a smascherare i trucchi del marketing. Per affrontare le nuove sfide della pubblicità, perché si possa arrivare davvero a uno scrivere civile, occorre allenare dei muscoli ben precisi, in contesti normativi ancora incompleti. Soprattutto, proveremo a capire i limiti di questi contesti e la direzione che vogliono indicare.
Nel capitolo Pelle, be’, ci ho infilato alcune delle mie scritture più recenti, quelle che più di altre mi sembrano testimoniare l’atteggiamento progettuale che è necessario a un buon scrivere civile.
E poi c’è il cuore, il centro di questo corpo vivo e palpitante, il passaggio tra un attivismo di brand a uno scrivere che sia civile, un momento di riflessione che spero possa risultare utile soprattutto a chi sta studiando questo mestiere, affinché tutto questo scrivere non risulti soltanto come una visionaria ispirazione accademica.
Indispensabile per lo sviluppo di queste riflessioni la mia collaborazione con Ipsos Italia: nell’aprile 2020 abbiamo fondato l’Osservatorio Civic Brands proprio per indagare e raccontare l’impegno sociale dei brand in Italia, un impegno inteso come impatto delle azioni compiute dalle marche per generare cambiamenti in ambiti che vanno dalla sostenibilità ambientale alla parità di genere, dal rispetto delle filiere alle politiche di diversity e inclusion. Per questo nella seconda parte del libro ho deciso di raccogliere alcune delle voci più interessanti tra i civic brand in Italia, riflessioni nate dalle interviste “2030: 20 brand in 30 minuti”: un format che richiama l’Agenda 2030 dell’Onu, ovvero lo strumento ufficiale che per la prima volta ha sancito un giudizio chiaro sull’insostenibilità dell’attuale modello economico non solo sul piano ambientale, ma anche su quello sociale e culturale.
Con queste interviste abbiamo cercato di studiare le nuove posture che le aziende sono chiamate a rispettare per stare sul mercato, comportamenti virtuosi non più relegati ai racconti, ma fondamentali per stabilire la progettualità di ogni tipo di brand.
Perché il civismo dei brand non può essere solo una buona pratica di comunicazione, ma deve dimostrarsi anche e soprattutto nei modelli di business. Non è solo una delle possibili strade, ma l’unica che possa davvero tirarci fuori dalle storture di questo mondo.