E vissero tutti felici e contenti?

Paolo Iabichino
5 min readNov 12, 2016

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(Articolo per Codice Edizioni. Agorà 13, Nov. 2016, Marketing Contemporaneo)

Artwork di Carlotta Petracci per Codice Edizioni

Noi della pubblicità stiamo vivendo l’ennesimo “momento rivoluzionario” dell’ultimo ventennio. Da quando Internet si è affacciato con prepotenza sulla scena mediatica, a intervalli di due o tre anni ci è stato somministrato un qualche antidoto che avrebbe dovuto definitivamente inaugurare quel cambio di paradigma innescato per metterci al riparo dal famigerato nuovo consumatore. Siamo passati dal marketing emozionale a quello delle esperienze, attraversando quasi indenni le maree del viral marketing, del guerrilla, dell’ambient, fino al native advertising e al misterioso programmatic.

Adesso è il momento dello storytelling: era dai tempi del Carosello che la nostra pubblicità non prendeva a prestito una storia per accompagnare un messaggio pubblicitario, ma forse ha ragione Andrea Fontana quando apre il suo ultimo saggio sulla materia invitandoci a una riflessione definitiva: storytelling non significa affatto raccontare storie, bensì comunicare attraverso racconti.

Non c’è quindi un lieto fine in questa vicenda, perché diventare dei cantastorie non ci aiuterà a riconquistare l’attenzione dei nostri interlocutori ormai frammentata tra decine di device e piattaforme.

Temo che un bel racconto non vincerà la diffidenza, l’infedeltà, la nuova sensibilità di un pubblico che chiede alle marche prima di tutto un nuovo atteggiamento sul mercato. È la poetica della verità a vincere questa partita, non le furbizie narrative che stiamo provando a imparare frettolosamente per cercare di riprenderci un minimo di carisma sui consumatori.

Comunicare oggi significa prima di tutto mettere in scena la propria verità. Non si tratta più di convincere qualcuno a comprare perché siamo bravi a spiegare cosa facciamo e come lo facciamo, oggi siamo a chiamati a farci scegliere attraverso i perché del nostro stare sul mercato. Nell’introduzione al volume di Simon Sinek che spiega molto bene questo nuovo assunto, viene scomodato addirittura Papa Paolo VI che nel 1974 avrebbe affermato durante un’udienza che “l’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri”, proprio perché i primi mostrano il perché, mentre i secondi sentenziano sul cosa e come.

C’è una grande voglia di vero intorno.

La ritroviamo nel successo planetario di alcune serie tv come Narcos e Gomorra. Nella realtà che sta ispirando un’intera stagione cinematografica come quella che sta per iniziare e che raccoglie storie ispirate da biografie (Snowden), fatti di cronaca o inchieste giornalistiche come quelle che hanno ispirato “Trafficanti” — nato da un articolo del Rolling Stones — o “Deepwater Horizon”, la piattaforma petrolifera di British Petroleum che ha causato uno dei disastri ecologici più gravi della storia americana e che è stato scritto a partire da un’inchiesta del New York Times. Mentre nella nostra televisione le parodie del vero come i reality show faticano ad attrarre nuovi spettatori, alcune marche riescono a convincere vecchi e nuovi consumatori attraverso racconti pubblicitari che pescano le loro trame nel vero della loro identità.

Il ritorno di Diadora, il successo di Proraso, fino all’ultima campagna di Benetton che scrive sulle proprie pagine pubblicitarie “clothes for humans”.

E se in quelle che sembrano operazioni vintage il pubblico incontra la verità di un passato più autentico e sincero che oggi vince sulle manipolazioni dell’innovazione e dell’ennesima “ultima novità”, nelle pagine pubblicitarie che presentano l’ultima collezione di Benetton sembra esserci un ritorno al vero del prodotto, non una promessa, ma una semplice affermazione: i nostri vestiti sono per gli esseri umani. Sembra banale, ma è una rivoluzione, se perfino CocaCola ha rinunciato alla narrativa della felicità (“Open Happiness” firmava da anni la comunicazione globale della bevanda americana) per abbracciare un meno prosaico “Taste the feeling” e salutare così il ritorno all’essenzialità del prodotto.

Ecco perché lo storytelling sembra funzionare. Perché attraverso il racconto della verità noi possiamo arrivare al cuore dei consumatori. Davvero non si tratta di inventare storie. Il Carosello non c’entra niente. È solo che forse le manipolazioni del marketing e della pubblicità hanno varcato il segno.

L’uso e l’abuso dei testimonial hanno finito per creare un’estetica della pubblicità uniformata e fine a se stessa, nel momento in cui le persone invece cercano di entrare in relazione diretta con le marche che portano nelle loro vite. Hanno imparato a farlo attraverso canali di comunicazione sempre più aperti, i social network hanno schiuso le porte dei palazzi di vetro e la relazione non può più essere mediata dalla retorica dell’advertising. Chiedono la verità. Diamogli la verità.

Invicta ha celebrato i suoi 110 anni con un’edizione limitata del leggendario zainetto Jolly messo in vendita online in 110 esemplari che sono stati venduti nel giro di poche ore. Perché? Uno zaino di quasi 300 euro viene acquistato d’impulso perché ciascuno ci ha ritrovato l’onestà di un passato messo in scena senza altri pretesti narrativi.

Lo stesso ha fatto Montenegro, nella campagna dello scorso anno in cui ha celebrato i suoi 130 anni di storia senza inerpicarsi sulla trama collaudata del suo eroico veterinario, ma raccontando le storie di 10 associazioni di volontariato impegnate nella salvaguardia del nostro patrimonio ecologico. Un sito dedicato ha collezionato le avventure quotidiane di questi volontari ripresi attraverso videocamere GoPro che le seguivano durante le loro attività e senza le costruzioni sintattiche che sempre richiede un certo tipo di pubblicità.

Alla verità non serve un direttore della fotografia. Alla verità serve un media capace di parlare direttamente alle persone e il digitale è perfetto per fare questo.

È bello quando questo nuovo atteggiamento rompe gli argini della rete per contaminare il mainstream. Questo è quello che hanno fatto questi racconti: hanno messo in televisione, sui giornali e anche sui cartelloni una comunicazione pubblicitaria rinnovata e attuale. Forse non c’è il cosiddetto storytelling per come siamo abituati a conoscerlo nei libri, nei nostri powerpoint e nei nostri seminari, ma c’è una storia che nasce dal vero, che rinuncia alla retorica delle promesse per affermare i perché.

E questo sembra piacere molto. Questo sembra davvero quello che le persone stavano aspettando. La narrazione è affascinante, ma se non riesce a portare dentro un afflato di verità è destinata a svanire.

E oggi più che mai le marche hanno bisogno di restare.

Restare a lungo nel cuore di chi le sceglie, perché in qualche modo ne rappresentano l’impronta valoriale. E finalmente possiamo tornare a dare significato a questa parola. Prima “i nostri valori” erano confinati nelle brochure, nelle company profile o nei menù a tendina dei siti istituzionali. Oggi il valore di una marca deve risuonare con quello di chi la sceglie. Per questo si raccontano i perché.

Ed è per questo che conviene a tutti essere più sinceri e autentici.

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Paolo Iabichino

Se vuoi seguirmi fai pure, ma sappi che non conosco la strada.