No purpose, no party.

Paolo Iabichino
4 min readNov 16, 2019

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Prima o poi doveva succedere. Nel nostro lavoro accade così da circa una ventina d’anni. Da quando la pubblicità ha cominciato a perdere carisma, da quando l’internet ha imposto nuovi paradigmi, da quando le dialettiche brand-consumer hanno perso gli argini confortevoli in cui avevano trovato reciproche soddisfazioni.

Ogni tanto arriva una nuova buzz-word che come un pifferaio magico ipnotizza i nostri palinsesti e reclama attenzioni inedite.

Abbiamo iniziato con l’ossessione per i video virali durante la prima ora di YouTube, poi siamo sbarcati in massa sui social network facendo le fortune pubblicitarie delle piattaforme, subito dopo è arrivato il momento degli influencer e infine abbiamo piegato la nobiltà dello storytelling alle nostre istanze di marketing. Il tutto accadeva mentre i cluster generazionali dei target più appetibili attraversavano tutte le ultime lettere dell’alfabeto, fino alla zeta.

Non è colpa di nessuno, si chiama panico: abbiamo visto crollare gli investimenti pubblicitari che reggevano interi modelli di business. Siamo usciti con le ossa rotte da una delle più gravi recessioni che il mondo abbia mai conosciuto. E abbiamo incontrato nel giro di pochissimi anni le più importanti rivoluzioni tecnologiche della storia dell’uomo. Peraltro l’avanzare furioso della tecnologia sta ridisegnando completamente l’essenza stessa di questo mestiere, perché mi sembra ormai indubbio che stia definitivamente saltando il sistema capitalistico tradizionalmente inteso e con lui le logiche liberiste sulle quali il buon Kotler poteva incidere sulla pietra le sue famigerate 4 P del marketing.

Ora, vuoi vedere che quel diavolo di un Kotler ha già chiesto ai suoi editori di dare alle stampe la quinta P del marketing? Perché da quando Nike ha usato il faccione di Mr. Colin Kaepernick per celebrare il trentesimo anniversario del suo Just Do It pare che la parola Purpose stia diventando la nuova moneta di scambio per far breccia nel cuore dei consumatori.

Intanto qualcuno/a ha registrato il dominio.

Tutta colpa di Simon Sinek, del suo cerchio magico e della teoria dei Perché che parlerebbero alla parte più antica della nostra corteccia cerebrale, quella altrimenti detta rettiliana, quella dove stanno di casa le emozioni per intenderci.

È tutto bellissimo. Ma questa volta facciamo tutti un po’ di attenzione, perché sembra non esserci un piano B.

Il purpose non può essere ridotto a una trovata di marketing.

Ora che tutto il nostro lavoro sembra ammantarsi di purpose, io sono a chiedermi se tutto questo debba chiamarsi ancora marketing. Ho la sensazione di una disciplina invecchiata velocemente. Che non è riuscita a sintonizzarsi con il mondo esterno, rincorrendo il media, inseguendo il target, disegnando funnel, senza fare i conti con mutazioni epocali che sono prima di tutto culturali, sociali, economiche, finanche antropologiche. Se il marketing vuole davvero essere della partita, impari a parlare con la CSR, con R&D, con HR, perché il nuovo marketing deve saper contaminare tutte le funzioni aziendali, non solo quelle che riguardano la comunicazione e le pubbliche relazioni. E forse le istanze più urgenti non arriveranno dal mercato, ma dalla società. Occuparsene potrebbe non portare alcun vantaggio nel quarter che sta per concludersi, ma nel lungo periodo sarà il patrimonio narrativo su cui l’azienda potrà poggiare la sua reputazione negli anni a venire.

Il Purpose dev’essere credibile, rilevante, pertinente.

Non basta mettere Kendall Jenner dentro un fantastico sessanta secondi durante il superbowl. È successo a Pepsi Cola, può succedere a chiunque non riesca a misurare correttamente i suoi coefficienti di credibilità all’interno della partita che ha scelto di giocare. Pertinenza e rilevanza devono andare di conseguenza. I nuovi pubblici non ammettono sbavature. Pretendono coerenza d’intenti e azioni precise.

Il Purpose deve avere un impatto sulla società e migliorarla.

Dare è più importante che dire. È il momento dell’azione. Ma non serve girare l’ennesimo video emozionale pieno di buone intenzioni, se queste non diventano anche impegni precisi con la collettività. È il momento di prendere le distanze dalle furbizie manipolatorie del nostro mestiere. Dobbiamo imparare a essere un po’ meno seduttivi e un po’ più concreti. In questo senso vincono le idee capaci di avere un impatto e migliorare la società.

Il Purpose non è l’ultimo trucchetto per colpire la Generazione Zeta

Chi non l’ha pensato, scagli la prima pietra. Ho la sensazione nettissima che tutto questo gran vociare intorno ai temi del purpose arrivi dalle pressioni di una nuova ondata di consumatori. Ci hanno detto che questi ragazzi e queste ragazze scelgono le marche in base a una serie di criteri valoriali. Ma quei criteri purtroppo non possono essere disegnati a tavolino. Per questo a volte si risulta goffi, o ancora peggio, tardivi.

Sono passati dieci anni dalla pubblicazione di Invertising e forse oggi i tempi sono maturi per fare questo mestiere in maniera più consapevole. Se non altro perché oggi moltissimi sentono l’urgenza di alcune tensioni sociali e culturali che non possono più aspettare. Hanno fallito gli stati, i governi, le religioni, le ideologie. Brutto da dirsi, ma è così.

Imprenditori, Ceo, Amministratori delegati, di piccole, medie o grandi realtà, possono agire qualcosa di estremamente utile per piccole, medie o grandi comunità. Riguarda il B2B e il B2C, ammesso e non concesso che questa distinzione abbia ancora senso. Riguarda qualsiasi industria.

Non serve gonfiare il petto con roboanti business roundtable, nelle prossime settimane sarà importante disegnare con precisione le traiettorie di marca per il futuro prossimo venturo, stando lontani dalle tentazioni buoniste del purpose low-cost.

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