Perché se ne parli
Il 150° anniversario di una banca detta le riflessioni su memoria e identità e su come i perché debbano soppiantare i puerili purché.

Un vecchio adagio in pubblicità sostiene l’importanza del “purché se ne parli”, non importa se bene o male, l’importante è che se ne parli. Niente di più pericoloso per brand e reputazione.
Quello che segue è il saggio introduttivo al Quaderno pubblicato dalla Galleria di BPER Banca l’istituzione che nasce con l’obiettivo di valorizzare l’immenso patrimonio storico-culturale del territorio. Non solo un museo, ma un luogo di scambio culturale vivace e vitale, per consolidare il rapporto che lega BPER Banca a Modena, un segnale di continuità con il passato e apertura verso il futuro.
Nel Quaderno la storia della Banca è percorsa dal 1970 al 2020, attraverso il racconto delle sue principali attività di comunicazione e pubblicità, credo sia per questo che mi è stato chiesto di aprire la pubblicazione con una riflessione sul valore narrativo di questo patrimonio storiografico, che non è solo réclame, ma diventa testimonianza culturale su ciò che significava, significa e significherà fare banca in nome della vicinanza.
Per chi ama questo genere di riflessioni, riporto il testo per intero che introduce la presentazione dell’archivio storico e prova ad analizzare il senso dell’opera alla luce di quello che siamo chiamati a fare nel nostro lavoro di ogni giorno, soprattutto di questi tempi.

Scrivo pubblicità da parecchio tempo, ho dedicato a questo mestiere gran parte della mia carriera, dei miei libri e della mia attività di docente, ma non ho mai fatto mio questo modo cinico e superficiale di guardare al mondo della comunicazione. Ho sempre preferito i perché dei messaggi di marca ai purché poco attenti e privi di quella sensibilità che ritengo debba essere sempre prestata al lavoro della pubblicità.
Ora, potete immaginare con che soddisfazione io abbia attraversato l’intera storia della comunicazione di BPER che mi è stato chiesto di commentare in questo breve saggio che introduce il poderoso lavoro archivistico della dottoressa Chiara Pulini. Un secolo e mezzo che va dal ciclostile ai social media, passando dalla réclame alla propaganda, tra sponsorizzazioni, televisione, radio, stampa, volantini, Internet, Facebook, Google, e tutto il palinsesto della rivoluzione mediatica che abbiamo attraversato e che ha cristallizzato la vocazione originaria di questo Istituto di Credito. Sì, Istituto di Credito. Quando è successo che abbiamo rinunciato a sentire le banche come luoghi istituiti per dare credito, inteso come fiducia, a sogni, progetti, aspirazioni?
BPER nasce come Banca Popolare di Modena, quella P maiuscola resta a significare un destino inamovibile di vicinanza e comunione con il territorio all’interno del quale s’inserisce il lavoro delle sue persone. E c’è come una comunanza di destini tra chi entra dentro una filiale per riporre la propria fiducia al di là di uno sportello e chi è chiamato a raccoglierla, dall’altra parte, per onorare una tradizione che questi 150 anni di storia sembrano non aver ancora scalfito.

E a proposito di destino, sto scrivendo nell’ottobre del 2020, come se qualcuno avesse puntato la sveglia di un anniversario per muovere questa riflessione: sono passati esattamente centocinquant’anni (più uno, era il 15 ottobre 1869) dall’apertura dei primi sportelli della Banca Popolare di Modena, il mondo sta vivendo una delle più gravi emergenze che si siano mai registrate e mentre scrivo mi sembra che questa storia si presenti come il più robusto degli anticorpi rispetto allo stravolgimento che stiamo attraversando. Perché non ha ceduto alle malizie del marketing fine a se stesso, dello storytelling e delle lusinghe narrative, continuando a usare il territorio e la vicinanza come il calamaio in cui intingere il pennino del proprio scrivere.
Nel leggere le pagine che seguono ho avuto la netta sensazione di trovarmi invitato a una festa di amici, nel patio di una grande corte, dove ciascuno porta qualcosa da mangiare e tutto proviene dai frutti della terra intorno. Per quanto grande sia questa corte, per quanto numerosi possano essere gli invitati, lo stato d’animo è quello di chi si sente esattamente a proprio agio, al sicuro, libero di essere se stesso, senza sovrastrutture, pose, travestimenti o finzioni. Ognuno di noi è stato almeno una volta in un posto così, ha ballato su un tavolo o si è appartato all’ombra di un albero, ha conversato, fatto baldoria, o si è semplicemente ritrovato nella piacevole sensazione di essere nel posto giusto, al momento giusto.
Qui dentro c’è tutto quello che ho sempre pensato debba essere il mio mestiere di pubblicitario.
Perché anche quando BPER comincia inevitabilmente a giocare le sue partite più importanti, quando le dimensioni si fanno più impegnative e si esce dagli argini territoriali per affrontare i linguaggi pubblicitari più sofisticati, la vicinanza non è mai un vezzo narrativo, ma un testimone che arriva da lontano.
Dal 1867 a oggi il rapporto tra banche e cittadini è quello che più di ogni altro ha lasciato sul campo la crisi di sfiducia che attanaglia sempre di più le relazioni tra individui, famiglie e istituzioni; eppure la comunicazione di BPER sembra ostinarsi dentro il suo karma territoriale. Mentre fuori si sperticano con i conti online, le intelligenze artificiali, i robo-advisor e gli algoritmi predittivi, qui si è “vicini oltre le attese”. Come a stabilire un paradigma inedito per un settore che si affanna pericolosamente nel rincorrere la muscolarità tecnologica, rinunciando all’umanizzazione di un servizio che non dovrebbe mai perdere di vista la relazione.
Il mio non è un rimpianto nostalgico, né un’affermazione luddista. So bene quanto la digitalizzazione e la tecnologia siano fondamentali nel nostro vivere contemporaneo. Stiamo imparando proprio in queste ore il valore più profondo di una vicinanza che sa esprimere il meglio di sé, anche e soprattutto attraverso schermi, monitor e display, ma c’è un sentire inedito che sta bussando alle porte dei nostri pixel ed è quello di una nuova consapevolezza per la robustezza delle nostre relazioni.
È come se d’un tratto qualcuno ci avesse rovesciato sul tavolo un secchio pieno di spazzatura indifferenziata con dentro gli eccessi bulimici del capitalismo e di un modo di fare mercato che ha rivelato il senso del limite.
Il mondo bancario ha marciato con cupidigia dentro questo vorticosa corsa verso il baratro, preoccupandosi pochissimo delle conseguenze di questo incedere e inanellando promesse pubblicitarie che hanno fomentato gli animi. Nascono giovani imprese, le cosiddette startup, che alla base dei propri modelli di business hanno come obiettivo la rivendita della stessa impresa dopo 3–5–10 anni di profitti sfrenati. Mentre dall’altra parte, il nostro Paese si riempie delle speranze di chi investe nell’agro-tech, proseguendo nelle aziende di famiglia quel racconto di genuinità e territorio che oggi può continuare usando la tecnologia, senza perdere di vista il proprio sentire originario. Ecco come dev’essere letta davvero la storia di ogni un’impresa — e anche quella di BPER ovviamente — che non perde il proprio epicentro narrativo al mutare delle stagioni, dei media, degli obiettivi e degli scenari. Non ha nulla a che vedere con il percorso storiografico, con il viaggio nel tempo, scandito dall’orizzontalità dell’incedere temporale. No.
Il mio consiglio è quello di leggere ogni storia come questa, attraverso una lente che muove in verticale, come speleologi che scavano, archeologi che indagano, ritrovano, spolverano reperti e incontrano significati che si tramandano.

Oggi la cosa più difficile da custodire e trasmettere è la coerenza del proprio punto di vista sul mondo. Sono in tanti ad aver abdicato per rincorrere nuovi target, per sbandierare sostenibilità, valori e principi etici che seducano le sensibilità delle nuove generazioni di consumatori.
Per chi nasce dentro questi principi è improbabile oggi tramutare in vezzo una condizione innata e immutata negli anni. C’è chi si vede costretto a inventare una carta di credito in legno per fortificare la sua favola eco-consumeristica rivolta verso nuovi cluster di target e c’è chi ha sempre guardato al mondo dei più giovani con disincanto e generosità, come atto nobile di vicinanza e magari prende a prestito lo Zecchino d’Oro per significare la propria dedizione verso i più giovani.
La pubblicità è fatta di furbizie semantiche, retoriche maestose ed esercizi narrativi che muovono da principi di seduzione. Spesso e volentieri, nel mondo finanziario, assicurativo, bancario, le traiettorie creative sono spinte dalle urgenze dei bisogni, dal produrre come un sentimento di inadeguatezza che confonde il cliente con un questuante.
Tanti parlano di vicinanza, ma è una metafora per creare una distanza paternalistica. Si dicono vicini, ma la vicinanza è un’altra cosa, va coltivata negli anni, comunicata nei fatti, nell’impegno e nella coerenza. E anche quando ci si trova di fronte alle nuove sfide imposte dal mercato, la sfida più grande deve continuare ad essere quella di proseguire un percorso di promesse che nel tempo sono diventate un patto di relazione. Tradire quello significa venir meno alle proprie origini fondative. Ma se si è riusciti a rispettarle in questi primi centocinquant’anni, difficile pensare che i prossimi centocinquanta distraggano da ciò che ogni giorno muove il lavoro di così tante persone.