Se muore l’attivismo, si salva chi può.
Guardian e Financial Times celebrano i funerali della cultura woke, e c‘è chi tira il fiato.
Conosco CEO e CMO che non vedevano l’ora: hanno ammainato la bandiera del brand activism con la stessa velocità con cui era stata issata sui pennoni del marketing aziendale e dei comunicati stampa. Parliamo di manager, executive e dirigenti che negli ultimi anni hanno rilasciato bilanci sociali, copertine di Forbes e interviste sull’inclusione, come infanti diligentemente in fila dietro le note suadenti del pifferaio magico.
Qualche anno fa avevano intravisto il saggio di Kotler e Sarkar, il titolo suonava bene, l’hanno messo tra le cose da leggere non appena avessero avuto tempo. Fatica evitata, perché per fortuna le società di consulenza e alcune agenzie di comunicazione sono arrivate da lì a poco a fatturare canvass e strategie di “purpose design per conquistare gli zed” (giuro che parlano così).
Così manager, executive e dirigenti non hanno letto il libro, ma hanno conosciuto i colleghi e le colleghe della CSR. Dentro alcune aziende è stata una specie di epifania: marketing e comunicazione allo stesso tavolo con le figure a cui davano qualche spicciolo per la reputazione e qualche evento. Dentro alcune organizzazioni le riunioni si sono allargate fino alle direzioni HR, gente che non si rivedeva dal giorno del primo colloquio e che discuteva insieme di brand employee e gender pay gap, perché insomma c’è questa rogna della D&I con cui si deve fare i conti. Nel senso che lo chiedono anche i fondi d’investimento.
Stacco.
Harley Davidson, Jack Daniel’s e John Deere hanno derubricato la vicenda immediatamente prima, a ridosso, o immediatamente dopo la rielezione di Trump negli Stati Uniti. Coca Cola celebra il natale con il solito truck sulle strade d’America nello spot-strenna, mentre rivede i suoi obiettivi di sostenibilità ambientale correggendo il sito ed eliminando alcune sezioni delle pagine interessate. E sempre a proposito di fondi d’investimento, Azoria Partners, attraverso la voce del suo principale rappresentante, definisce “esperimenti scientifici woke” gli impegni presi da alcune aziende sui temi dei più elementari diritti umani, sociali e ambientali.
Da ogni dove si ciarla intorno al Capitalismo Woke, un altro libro che da qualche anno fa le pernacchie dagli scaffali delle librerie alle spalle delle scrivanie dirigenziali, ma che pochissime persone si sono prese la briga di leggere per capire cosa ci fosse scritto.
Ma davvero volevate far credere di salvare il mondo con i pannelli solari, il volontariato aziendale, gli arcobaleni al Gay Pride e il post contro la violenza sulle donne il 25 novembre?
Provo a venirne a capo una volta per tutte, in modo che non usiate ancora una volta gli americani come pretesto per continuare a intossicare narrazioni e mercati. Sì lo so che a volte sono la stessa cosa, ma parlo di merendine, shampoo e pubblicità, ché di questo qualcosa capisco.
Quello che state per leggere è stato scritto 5 anni fa nell’apertura alla traduzione italiana del famigerato Brand Activism del professor Kotler. Vale ancora oggi, così si possono continuare a ignorare le pagine successive che ormai non sono più in hype.
Il purpose non può essere ridotto a una trovata di marketing.
Ora che tutto il nostro lavoro sembra ammantarsi di purpose, io sono a chiedermi se tutto questo debba chiamarsi ancora marketing. Ho la sensazione di una disciplina invecchiata velocemente. Che non è riuscita a sintonizzarsi con il mondo esterno, rincorrendo il media, inseguendo il target, disegnando funnel, senza fare i conti con mutazioni epocali che sono prima di tutto culturali, sociali, economiche, finanche antropologiche.
Il Purpose dev’essere credibile, rilevante, pertinente.
Non basta mettere Kendall Jenner dentro un fantastico sessanta secondi durante il superbowl. È successo a Pepsi Cola, può succedere a chiunque non riesca a misurare correttamente i suoi coefficienti di credibilità all’interno della partita che ha scelto di giocare. Pertinenza e rilevanza devono andare di conseguenza. I nuovi pubblici non ammettono sbavature. Pretendono coerenza d’intenti e azioni precise.
Il Purpose deve avere un impatto sulla società e migliorarla.
Dare è più importante che dire. È il momento dell’azione. Ma non serve girare l’ennesimo video emozionale pieno di buone intenzioni, se queste non diventano anche impegni precisi con la collettività. È il momento di prendere le distanze dalle furbizie manipolatorie del nostro mestiere. Dobbiamo imparare a essere un po’ meno seduttivi e un po’ più concreti. In questo senso vincono le idee capaci di avere un impatto e migliorare la società.
Il Purpose non è l’ultimo trucchetto per colpire la Generazione Zeta
Chi non l’ha pensato, scagli la prima pietra. Ho la sensazione nettissima che tutto questo gran vociare intorno ai temi del purpose arrivi dalle pressioni di una nuova ondata di consumatori. Ci hanno detto che questi ragazzi e queste ragazze scelgono le marche in base a una serie di criteri valoriali. Ma quei criteri purtroppo non possono essere disegnati a tavolino. Per questo a volte si risulta goffi, o ancora peggio, tardivi.
No. Non è Kotler il pifferaio magico, rispetto il professore e la lucidità con cui si sforza di aggiornare continuamente la sua disciplina alla luce delle rivoluzioni culturali che stiamo attraversando. Ma qui non si tratta di aggiungere la P di People e quella di Planet alle 4 che venivano prima, qui c’è bisogno di recuperare le sorti di un mestiere che forse non ha più molto a che fare con emergenze, disuguaglianze, crisi e povertà come quelle che ci stanno presentando il conto.
Il flauto magico è suonato dall’ipocrisia di chi ha fatto credere che il buonismo fosse la nuova moneta di scambio per stare sul mercato. L’hanno chiamato “woke” per insultarci, “politicamente corretto” per farci sentire stupidi e idealisti, “politicizzato” per depotenziarlo. Cazzate.
“Per me si fa politica in ogni momento della vita: quello che mangiamo è politica, come trattiamo gli animali è politica, la natura è politica. Anche i nostri vestiti lo sono. Perfino la spazzatura è politica”.
(Olga Togarczuk, Premio Nobel Letteratura 2019)
Forse ha ragione l’Oxford Dictionary con Brain Rot eletta a parola dell’anno per dirci che abbiamo il cervello in pappa. Ma non credo sia colpa dei social, più probabile che le sinapsi di chi fa questo mestiere siano state bruciate dalla competizione sfrenata, dal profitto a tutti i costi, dal risultati nel breve periodo, sempre più breve, con margini alti, sempre più alti, per compiacere chi investe e penalizzare chi produce.
È il mondo alla rovescia, il cui profeta di sventura oggi finisce alla corte dello stesso Fedez che qualche anno fa ritirava l’Ambrogino d’Oro per la filantropia a favore di Instagram. E ci siamo cascati tutti.
Ora, in conclusione, le storture che abbiamo di fronte non se ne andranno a colpi di spot e manifesti. Siamo dentro una rottura culturale che chiede un nuovo modo di fare mercato. Lasciate perdere lo storytelling delle buone intenzioni, vi prego, non c’è più tempo. Servirà ridefinire modelli di business e paradigmi. Fermarsi a pensare il da farsi.
Fermarsi.
Come quando un lockdown ci ha regalato l’illusione che fossimo comunità plurali, attente ai più fragili e capaci di cooperare per provare a salvarci.
Forse è già tardi, ma un tentativo andrebbe fatto. Perché ci sono temi che non possono essere rimandati. Il Brand Activism è morto, evviva il brand activism, quello dell’impegno sincero, dei patti con i consumatori, delle filiere responsabili, dell’attenzione vera verso la crescita delle persone che lavorano con te, per te. Per un mercato che sia davvero al servizio della società, come voleva l’Economia Civile sulle basi della quale tantissima della nostra industria è stata fondata, prima degli americani, di Kotler e del Piano Marshall.
Per lavoro sono a contatto con famiglie imprenditoriali, manager di seconda e terza generazione, di realtà piccole, medie e grandi dimensioni. Nel B2B, nel B2C, nei servizi, chiunque ha bisogno di vendere qualcosa a qualcuno, ma ci può essere un profitto sano, integro, libero dalle narrazioni salvifiche di chi flirta con l’ultima tendenza di marketing, dimenticandosi l’enorme patrimonio civile che il nostro capitalismo ha portato nel mondo.
Il nostro tessuto imprenditoriale è fatto ancora di persone che ci credono, che prima di chiederti cosa scrivere, ti chiedono cosa fare. Che conoscono la differenza tra brand e commodity. La prima è capace di aggregare persone intorno agli stessi principi che muovono chi compra e chi vende, la seconda no.